“Possiamo ucciderle ma non scoparcele perché questo dice la Bibbia.”
Fury è l’ennesimo film sulla seconda guerra mondiale che guarda caso ci racconta degli eroi americani che proteggono la vecchia Europa e di conseguenza il mondo intero. Cosa dobbiamo salvare allora di quest’ultima faticaccia di David Ayer (già regista di “Sabotage”, nonché sceneggiatore e produttore del sempre apprezzabile “Training Day”)? Sicuramente non la modestia (la sparano un po’ grossa nei trailer di lancio, quando parlano del miglior film di guerra degli ultimi 30 anni), di certo però la pellicola ha diversi lati positivi: in primis un sontuoso Brad Pitt, condottiero che guida il suo plotone attraverso un’operazione militare difficile, pressoché disperata, ma che non ho trovato banale, né tanto meno puzzava di “già visto”. Per l’amor di Dio, non siamo di fronte al nuovo “Full Metal Jacket” ma ammetto che a me Fury è piaciuto, mi ha raccontato una storia che mi è sembrata verosimile (e discretamente credibile), lo ha fatto con una regia competente e non ha “sbragato” in americanate esorbitanti (anche se qualcosa glielo dovremo pur concedere).
La vicenda è la convivenza di un gruppetto di militari che ne ha viste di ogni nei quattro anni passati insieme in mezzo alle bombe. Ciò li ha resi inseparabili, affiatati, una macchina da guerra oliata e perfetta. A minarne l’unione sarà Norman, un giovanotto mandato al fronte senza alcuna preparazione, che dovrà guadagnarsi il rispetto della truppa.