“Spezzacatena! Belli sti pantaloni, li fanno anche da uomo?”
Il ragazzo dai pantaloni rosa è uno di quei film che fanno male. Non solo per la storia drammatica che raccontano, ma per la realtà che rivelano e che, purtroppo, conosciamo fin troppo bene. Il dolore qui non è finzione, ma cronaca. La storia di Andrea Spezzacatena, vittima di bullismo e cyberbullismo, è quella di troppe altre vite spezzate dall’indifferenza, dall’ignoranza e dalla cattiveria. E mentre il film di Margherita Ferri cerca di raccontare quella tragedia con delicatezza e rispetto, ci ricorda che il bullismo non è mai un gioco. Non è mai un semplice “scherzo”. È violenza. Ed è morte.
Il film parte da un punto fermo, quello che forse più ci lacera il cuore: Andrea Spezzacatena non c’è più. Lo dice la sua voce fuori campo, un espediente narrativo che lo rende presente anche nell’assenza. E che, nel raccontarsi, ci ricorda che le parole pesano. Che gli insulti lasciano segni. Che le umiliazioni fanno male. E che certe ferite non si rimarginano. Samuele Carrino, nel ruolo di Andrea, offre un’interpretazione che non si dimentica. È sfumato, sensibile, incredibilmente umano. Ti porta dentro quel senso di inadeguatezza, di solitudine, di disperazione che solo chi è stato bullizzato conosce. Ti fa sentire il peso di ogni risata alle spalle, di ogni sguardo storto, di ogni silenzio complice. E poi c’è Christian, interpretato da Andrea Arru, il volto della cattiveria adolescenziale, quella che a volte nasce dal disagio, altre dall’ignoranza, ma che troppo spesso si trasforma in un’arma letale. E Sara Ciocca, nel ruolo dell’amica Sara, è il riflesso di quella vicinanza che non basta, che arriva troppo tardi.
La regia di Margherita Ferri è sobria e attenta, forse anche troppo. Perché mentre racconta con empatia la storia di Andrea, sembra quasi temere di andare fino in fondo, di toccare davvero il cuore del problema. C’è una prudenza che pesa, come se il film avesse paura di pronunciare certe parole. E così, mentre racconta con chiarezza la brutalità del bullismo, sembra sfiorare soltanto il tema dell’identità, della possibile omosessualità di Andrea, che aleggia come un’ombra, ma non viene mai affrontata apertamente. Forse per rispetto, forse per non cedere alle etichette. Forse per non ferire ancora di più. Ma resta il dubbio: è una scelta narrativa o una rinuncia? Forse è questo il punto più controverso del film, perché il bullismo è bullismo, a prescindere, e perché l’orientamento sessuale di una persona non dovrebbe mai essere una giustificazione, né per chi compie violenza né per chi racconta quella violenza. Eppure, la prudenza con cui il film sfiora l’argomento lascia una sensazione di incompiutezza, come se qualcosa fosse rimasto in sospeso. Non che il film abbia bisogno di etichette, ma di coraggio, sì. Di quella stessa forza che Teresa Manes, madre di Andrea, ha mostrato quando ha deciso di raccontare la storia di suo figlio senza sconti. La sua frase, che chiude il film, è un pugno nello stomaco: «Con mio figlio ho fatto tanti errori, ma permettergli di indossare quei pantaloni rosa non è stato tra questi». Ed è questo il messaggio più potente.
Eppure, Il ragazzo dai pantaloni rosa non è solo dolore. È anche vita. Perché il film sceglie di raccontare Andrea per quello che era: un ragazzo pieno di passioni, di desideri, di sogni. Un adolescente come tanti, con le sue fragilità e le sue forze, con le sue gioie e le sue paure. E in questo, la regia di Ferri è efficace. Riesce a dare spazio alla luce, prima che arrivi l’oscurità. Alle risate, prima delle lacrime. Alla speranza, prima della resa. C’è un tentativo chiaro di parlare ai giovani, di usare un linguaggio a loro vicino, fatto di immagini luminose, musiche accattivanti e scene di vita quotidiana. Il film ricorda per certi aspetti le commedie teen americane, quelle in cui sembra che tutto finirà bene. Ma qui sappiamo che non è così. E forse è proprio questo contrasto a far più male.
Il rapporto tra Andrea e Christian è forse il più complesso, quello che avrebbe meritato uno sguardo ancora più profondo. Perché c’è un’attrazione ambigua, una tensione che rimane sospesa, un legame che non viene mai definito del tutto. Ed è proprio in questa incertezza che risiede la parte più interessante del film, quella che forse avrebbe potuto osare di più. Ma Il ragazzo dai pantaloni rosa è, in fondo, un film necessario. Non perfetto, non incisivo come avrebbe potuto essere, ma necessario. Perché racconta una storia vera. Perché mette al centro una verità scomoda. Perché invita a riflettere. Perché può diventare uno strumento di lotta, un modo per dire ai ragazzi e alle ragazze che le parole fanno male, che l’odio non è mai giustificabile, che la diversità non è un bersaglio. Che chi resta in silenzio è complice. E allora sì, forse è giusto che il film abbia scelto la via della delicatezza, della prudenza, della speranza. Forse è giusto che si rivolga ai giovani con la leggerezza di una commedia, anche se la fine non è lieta. Forse è giusto che lasci lo spettatore con un messaggio chiaro: che Andrea non è morto per un paio di pantaloni rosa. È morto per l’indifferenza, per la crudeltà, per l’ignoranza. E questo, sì, deve cambiare.