“Secondo me non batteresti neanche una suora novantenne a braccio di ferro.”
Hai presente quei film che guardi aspettandoti una roba da 6 pieno, tipo “ok, mi terrà compagnia mentre mangio la pizza”, e poi ti ritrovi coinvolto, teso, e a un certo punto pure a fare il tifo? The Amateur è esattamente così. Non è un capolavoro e non lo vuole nemmeno essere, ma funziona. E sai perché? Perché prende un’idea semplice – vendetta personale, CIA corrotta, nerd in lutto – e la gioca dritta, senza cercare di fare il fenomeno. E per me questo conta.
Rami Malek è Charlie Heller, crittografo della CIA, marito innamoratissimo, e ora vedovo incazzato. Dopo che sua moglie muore in un attentato terroristico a Londra, e l’agenzia se ne lava le mani con la solita freddezza burocratica, lui decide che no, non ci sta. Ma non ha muscoli, pistole, né addestramento. Ha solo un cervello che gira a mille, un sacco di dolore da convertire in codice, e una precisione quasi surreale nel localizzare nemici in mezzo mondo. È un po’ Mr. Robot, un po’ Taken, e – parola di Rami Malek – pure un po’ Rainbolt, il tizio dei video di YouTube che gioca a GeoGuessr (quello che ti becca un incrocio a caso in Bolivia guardando mezzo palo della luce ed il tipo di erba). Charlie è così: un vendicatore 2.0, che non ti spara in faccia, ma ti scova con uno screen blur, ti cripta il telefono e ti fa esplodere la macchina usando una riga di codice. Elegante, metodico e sempre un passo avanti.
Il film ha un ritmo solido, qualche sbavatura qua e là, ma tiene botta. Le scene d’azione non sono esplosive ma ben calibrate. I momenti di tensione sono costruiti con intelligenza. E quando le cose gli riescono – o quasi gli esplodono in faccia – tu non solo ci credi, ma lo vivi con lui. C’è persino un momento in cui un agente in missione ufficiale, segue un altro agente in missione non ufficiale, che segue Charlie, che segue i cattivi… “che al mercato mio padre comprò”. E lì capisci che siamo in piena fiera dell’Est, versione CIA.
La regia di James Hawes è pulita: niente fronzoli, niente tagli epilettici, tutto funzionale. Le location sono classiche ma affascinanti: Londra, Parigi, Marsiglia, Istanbul… E Malek tiene tutto in piedi con una performance fatta di silenzi, occhiate e quella tensione interna che lo accompagna da sempre. È un ruolo cucito addosso a lui, anche se un po’ troppo vicino a Mr. Robot per non farti fare il confronto. Eppure, funziona. Perché stavolta il personaggio non è solo incastrato in un sistema, lo affronta di petto. E sì, ha le sue fragilità. Charlie non è un superuomo: si sbaglia, soffre, arranca. E proprio per questo diventa credibile.
I difetti? Eccome se ci sono. Il primo su tutti è il trattamento riservato alla moglie di Charlie: la relazione viene sbrigata in cinque minuti a colpi di “ti amo” ripetuti come un mantra, come se bastasse infilare la frase nel copione tre volte per convincerci che tra loro ci fosse un amore profondo e indissolubile. Peccato, perché la trama ruota tutta attorno alla sua morte, ma tu spettatore la conosci meno della tua barista di fiducia. Quando lei sparisce, ti dispiace per Charlie, certo, ma è un dispiacere di protocollo, più per educazione che per reale empatia. Il film prova a rattoppare questa mancanza con una manciata di flashback disseminati qua e là, che però arrivano sempre troppo tardi e non aggiungono molto. Sembrano più dei promemoria visivi per ricordarti perché tutto questo sta succedendo, piuttosto che scene capaci di aggiungere spessore emotivo.
Anche il ritmo ha i suoi alti e bassi. Ci sono momenti in cui tutto corre troppo in fretta, tagliando corto su situazioni che avrebbero meritato un po’ più di tensione, e altri in cui il film sembra prendersela comoda giusto per allungare il brodo. Il risultato è un andamento un po’ a zig-zag, che ogni tanto ti fa controllare l’orologio, anche se mai con fastidio vero. I personaggi secondari, tolto un Laurence Fishburne che domina la scena ogni volta che entra in campo, non lasciano grandi tracce. Funzionano per far andare avanti la trama, ma non restano impressi. E i cattivi? Sembrano usciti da un videogioco: appaiono solo nel momento del confronto finale, come boss da eliminare uno dopo l’altro. Nessun vero background, nessun accenno a chi siano davvero. Sappiamo che sono malvagi perché hanno fatto cose orribili, ma non capiamo mai perché le abbiano fatte. Rimangono silhouette minacciose, svuotate di profondità. E alla fine, ti chiedi se fossero davvero così pericolosi.
Ma nonostante tutto, The Amateur si lascia guardare con piacere. È quel film che non pretende di rivoluzionare il genere, ma ti tiene incollato per due ore con mestiere, intelligenza e quel tocco tech che oggi non guasta mai. E poi, scusate: è un film originale. Non un sequel, non un prequel, non l’adattamento di un gioco mobile. Una storia con un inizio, uno svolgimento e una fine. E già solo per questo merita rispetto. Insomma, The Amateur è un revenge movie che sceglie il cervello al posto dei pugni, il codice al posto dei proiettili, e un protagonista che non ti stupisce con effetti speciali, ma con ingegno, dolore trattenuto e un’ossessione lucida. Non ti cambia la vita, ma ti regala due ore di cinema onesto. E a volte, è proprio questo che serve.