“Cominciai a rendermi conto che stavo perdendo la mia identità.”
Un caso parecchio discusso e da cui la cinematografia ha già attinto in passato: nel 1971 a Stanford il professor Philip Zimbardo decide di indagare sui risvolti psicologici che la mente umana subisce in seguito ad una detenzione. Per farlo decide di proporre ad alcuni studenti (consenzienti e retribuiti) una simulazione carceraria in cui metà di loro assumerà le sembianze del secondino, la restante parte sarà composta da detenuti. Questa finzione si rivelerà fin troppo veritiera e turberà non poco gli animi delle parti in causa, comprese quelli del gruppo di analisti.
Come detto la produzione diretta da Kyle Patrick Alvarez non è il primo lungometraggio che ci propone questo caso: il predecessore più celebre è il “The Experiment – Cercasi cavie umane” diretto nel 2001 da Oliver Hirschbiegel; un film decisamente più cruento e meno attinente ai fatti realmente accaduti, al quale ha fatto seguito un remake nel 2011. The Stanford Prison Experiment, invece, è un film che ha nella linearità narrativa la sua forza, che consegna allo spettatore un’analisi psicologica senza filtri, cercando di darne una trasposizione sincera. Il rovescio della medaglia è l’assenza di un colpo di scena che avrebbe reso la pellicola più appassionante ma certamente meno vera.