“C’è un ragazzo che vuole una che sappia il russo… Si occuperà lei di tutte le tue necessità!”
Scrivere di Anora è come cercare di catturare un uragano con una macchina fotografica a pellicola: ogni scatto racconta qualcosa, ma è solo quando metti insieme tutti i fotogrammi che ti accorgi della tempesta che hai davanti. Sean Baker ha creato qualcosa di raro, un film che riesce a essere feroce e dolce, brutale e tenero, volgare e raffinato, tutto nello stesso istante. La storia di Anora potrebbe sembrare l’ennesima favola al contrario: una spogliarellista che si ritrova sposata al figlio di un oligarca russo in una notte di eccessi a Las Vegas, solo per vedere il sogno sgretolarsi quando i genitori del ragazzo arrivano a rimettere le cose “a posto”. Ma chi conosce Baker sa che la sua è una cinematografia di carne e ossa, fatta di dettagli minuziosi, di angoli della società che il cinema spesso ignora o trasforma in feticcio. E Anora non fa eccezione.
Mikey Madison è devastante nel ruolo della protagonista. Anora è un personaggio che sembra sapere sempre cosa fare, come manipolare una situazione a suo vantaggio, ma è solo un’illusione: in realtà, è una donna che si aggrappa a ogni spiraglio di speranza, a ogni occasione di uscire dalla sua vita di fatica e precariato. Madison è magnetica, ogni espressione del suo volto racconta più di mille parole, e il suo Oscar non è solo meritato, è inevitabile. Il film è un’equazione sulla disparità di classe, sulla distanza incolmabile tra chi ha il potere e chi lo subisce. Vanja, il rampollo senza spina dorsale interpretato da Mark Eydelshteyn, è l’incarnazione perfetta di un mondo in cui i ricchi giocano con le vite degli altri senza nemmeno rendersi conto di farlo. E dietro di lui c’è un cast straordinario che rende ogni momento un piccolo capolavoro: la madre glaciale e spietata, il padre assente ma sarcastico, e soprattutto Igor’, interpretato da Yura Borisov, il guardaspalle taciturno che con pochi sguardi racconta più del protagonista stesso.
Ma Anora non è solo un film sulle differenze economiche. È una riflessione sull’amore, sul desiderio e sulle illusioni che costruiamo per sopravvivere. Il montaggio di Baker, premiato con un altro Oscar, è chirurgico, capace di trasformare una fuga per la città in una corsa disperata verso un’utopia che non esiste. Il finale è un pugno nello stomaco: quando Anora, dopo essere passata attraverso l’inferno, riceve un gesto di gentilezza inaspettata, la sua reazione non è gioia, ma un crollo emotivo. È in quel momento che il film rivela la sua vera anima: la vita non è una favola, ma a volte, tra le macerie, si può trovare un diamante. E se Anora ha trionfato agli Oscar con cinque statuette dopo la Palma d’Oro a Cannes, non è solo per il talento tecnico o per la potenza della sua protagonista. È perché ci ricorda che il cinema può ancora essere un’arma, una lente attraverso cui vedere il mondo senza filtri. Un film che non si limita a raccontare una storia, ma che ti entra sotto la pelle e ci resta, molto dopo che le luci in sala si sono spente.