“In questo parlamento, non sarà certo permesso discutere su quanto ciascun patriota ha sofferto e fatto. Gli esuli e gli ex-galeotti verranno celebrati tutti allo stesso livello, come dei rottami da enumerare sbrigativamente, i cui discorsi non producono che noia. Sono andato via come sono arrivato, nessuno mi ha notato, ma io non conto. Eravamo tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava. Noi la lotta dovevamo cominciarla quando ne uscimmo. Noi: dolce parola. Noi credevamo.”
Questo lungometraggio – l’aggettivo “lungo” calza proprio a pennello vista la durata dell’opera – è una ricostruzione fedele degli avvenimenti salienti che hanno condotto alla tanto agognata Unità d’Italia, visti attraverso gli occhi di Domenico, Salvatore e Angelo, tre giovani meridionali di diversa estrazione sociale, i quali decidono di consacrare le proprie vite alla causa indipendentista. Affiliatisi alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini, cercheranno invano di coltivare il loro sogno repubblicano, percorrendo strade differenti, lungo le quali accompagneranno lo spettatore a rivivere alcune delle tappe fondamentali del tortuoso processo di unificazione che, come tutti ben sappiamo, avenne poi sotto l’egida sabauda.
Nonostante sia uscito proprio in occasione – e non è affatto una coincidenza – dell’anniversario dei 150 anni dell’unità nazionale, questo film di Martone non risulta affatto un’opera celebrativa, tanto che più che l’esaltazione di un’eroica vittoria italiana, pare paradossalmente un tragico e malinconico coro di sconfitta. Difatti, la pellicola vuole ribaltare molte delle idealistiche credenze popolari sul risorgimento, puntando i riflettori su quelle che furono le sue zone d’ombra. Il movimento d’indipendenza e unificazione fu controverso e caratterizzato da divisioni interne, spesso abissali; svariati furono i complotti e i tradimenti, troppe le scelte prese più per convenienza che per vera e propria spinta patriottica. Intrighi politici, la lotta dei repubblicani contro i monarchici, gli attentati degli anarchici e le repressioni dell’esercito piemontese nelle regioni del Sud nei confronti dei garibaldini: tutto questo ha voluto ritrarre il regista, ben conscio delle disattese promesse di un risorgimento forzato e di un’unità raggiunta a caro prezzo e con modalità che non potevano certo costruire i presupposti per un’Italia veramente coesa, specialmente in un meridione che il nuovo regno non aiutò ad uscire dalla sua atavica arretratezza.
Tuttavia, l’opera non riesce a coinvolgere emotivamente lo spettatore, e inoltre lascia pochissimo spazio a qualsiasi tipo di virtuosismo artistico. Colpa in parte del regista, forse acciecato dal suo obiettivo civile e storiografico, e in parte di un cast non sempre convincente, nel quale convivono attori decisamente più navigati e talentuosi – come il bravo Luigi Lo Cascio e Toni Servillo che veste i panni di un Mazzini inspiegabilmente già attempato a trent’anni (pecca incomprensibile) – ed altri francamente mediocri che offrono interpretazioni fiacche e opache – su tutti un’impacciata Francesca Inaudi, la quale prova a riportare in vita Cristina di Belgiojoso. Comunque da vedere per scoprire molte cose interessanti sul nostro passato che spesso i libri di scuola tacciono colpevolmente!