“Aaron ha delle capacità straordinarie, continua ad assorbire informazioni e a trasformarle a suo piacimento. Sente ‘trono’ e dice ‘tuono’, ma è perfettamente cosciente di cosa sta facendo.”
Ari Folman mi ha stregato nella stessa misura in cui Robin Wright incantò i suoi numerosi ammiratori all’apice della sua gloriosa carriera. Ma oggi Robin (in realtà siamo proiettati in un tempo non precisato, ma futuro) vive un declino dettato in parte da un figlio affetto da una rara malattia che lo renderà cieco e sordo, e da un caratteraccio capriccioso ed estremamente sensibile. La casa produttrice Miramount ha cercato a più riprese di far cambiare idea alla protagonista ma questa volta presenta un’offerta che l’ex diva hollywoodiana non può rifiutare: ne compra l’immagine e la riproduce digitalmente per l’eternità, facendo di Robin Wright un’icona del cinema immortale. Eccoci arrivati al punto di rottura del film, dove finalmente il regista israeliano può esprimere tutto il suo estro. Da qui in poi, infatti la pellicola racconterà di una realtà parallela, frutto di allucinazioni e sogni della protagonista. Lo farà attraverso un disegno decisamente estroso, (l’arma con cui già Ari mi aveva incantato in Valzer con Bashir), talvolta erotico e violento, talvolta romantico e sentimentale; sicuramente il modo meglio conosciuto da Folman per descrivere le visioni oniriche della bella Robin, protagonista anche nel mondo irreale.
Pellicola che non si dimentica, sicuramente non convenzionale, in cui il regista sembra auto reprimersi nella prima metà (comunque molto ben riuscita) per poi esplodere nella seconda parte come un fiume in piena. In questo The Congress mi ha ricordato Dal Tramonto all’Alba, un film sicuramente molto diverso ma in egual misura emblematico per il proprio regista. Un viaggio stralunato affrontato da una pellicola coraggiosa, non sottovalutatelo.