“Era la donna giusta. Solo adesso lo so. Però l’ho cacciata via. Da allora passo ogni giorno in cerca di Amy.”
Ci sono film che, rivedendoli anni dopo, fanno venire voglia di urlare allo schermo. Altri, invece, riescono nella magia più rara: quella di farti arrabbiare, commuovere e riflettere, tutto nello stesso dialogo. Chasing Amy è questo tipo di film. È imperfetto, spigoloso, spesso confuso, ma proprio per questo onesto, urgente, vero. Ed è anche uno dei pochi film scritti da un uomo etero bianco cis negli anni ’90 che cerca, davvero, di parlare di identità, desiderio e fragilità maschile senza mettersi su un piedistallo. Fallisce? A volte, ma almeno non resta zitto.
Holden (un Ben Affleck sorprendentemente vulnerabile) si innamora di Alyssa, una fumettista brillante, molto diretta e… lesbica. E qui già un campanello inizia a suonare. Ma aspetta. Perché Alyssa non è un trofeo da “convertire”. È una donna libera, complessa, piena di ombre e fuoco. Il problema non è lei. Il problema è Holden, e tutti gli Holden del mondo che, davanti a una donna come Alyssa, iniziano a sgretolarsi. Perché non sono preparati. Perché non sanno che fare di fronte a una donna che ha un passato, un’identità sessuale non lineare, un’esperienza che non ruota intorno alla loro fragilissima virilità.
Kevin Smith scrive dialoghi che sembrano partoriti in una stanza piena di amici che discutono tra birre e battute da nerd. Ma a differenza di Clerks o Dogma, qui c’è un’urgenza più grande. Smith voleva davvero dire qualcosa. E si sente. Il punto di vista resta maschile, il focus resta su Holden, ma non si tratta mai del “salvatore bianco” che redime la donna queer. Anzi: più il film avanza, più capisci che Holden è lo specchio rotto della mascolinità che non sa come gestire il desiderio quando non può possederlo. Che si sente tradito da un passato che non gli appartiene, che crede che l’amore debba arrivare vergine, puro, e plasmabile. La reazione isterica di Holden quando scopre il passato sessuale di Alyssa non è una sorpresa. È la manifestazione tragica del patriarcato che implode sotto il peso della sua stessa insicurezza. E qui arriva la parte davvero interessante: Smith non giustifica Holden. Lo mette a nudo. Lo fa cadere. E lascia che Alyssa lo guardi crollare con dolore, ma senza mai perdere la dignità. Joey Lauren Adams è immensa. Ha la voce che sembra uscita da una favola, ma le parole sono lame. Quando urla il suo dolore, quando rifiuta la proposta assurda del “menage a trois per risolvere tutto” (sì, è davvero una cosa che succede nel film!), senti tutto il peso degli anni passati a essere giudicata, ridotta a un’etichetta, desiderata ma mai accettata per intero.
La scena finale, silenziosa e intensa, è tutto quello che un buon film dovrebbe lasciarti: domande, malinconia, rispetto. Non c’è redenzione magica. Non c’è happy ending hollywoodiano. C’è una donna che ha fatto pace con sé stessa, e un uomo che forse ha capito quanto poco sapeva dell’amore. E se questo vi sembra poco, vi invito a pensare a quante storie d’amore eterosessuali sullo schermo arrivano a tanto. Certo, Chasing Amy non è immune da problemi. Il fatto che tutto venga filtrato attraverso lo sguardo maschile resta una enorme pecca strutturale. Alcune dinamiche sulla sessualità avrebbero avuto bisogno di una voce queer alla regia o alla sceneggiatura. Il film accarezza stereotipi che oggi fanno decisamente storcere il naso, e ci sono momenti in cui Smith sembra inciampare sulla linea sottile tra empatia e appropriazione. Ma — e questo è un “ma” importante — almeno ci prova. E a volte, cercare è già una forma di rispetto.
Ovviamente Chasing Amy non è il film che insegna qualcosa alla comunità LGBTQIA+, ma può insegnare qualcosina a chi non ne fa parte. È un film che parla di identità, di limiti, di crescita. Di come si possa amare qualcuno senza capirlo davvero, e di quanto sia doloroso ma necessario lasciar andare chi ci ha insegnato qualcosa. È una storia che grida contro il moralismo, contro la paura del passato, contro l’ossessione per la purezza. È, in fondo, un racconto sulla libertà di essere chi si è. E anche solo per questo, merita di essere visto. Alyssa non ha bisogno di essere “salvata”. È Holden che ha bisogno di crescere. E se c’è una verità che questo film ci regala, è che l’amore non è un premio, né un castigo: è un processo. Fatto di errori, di rotture, di risate e di pianti. E di una voce roca che ti guarda negli occhi e ti dice: io non mi vergogno di chi sono. Se questo non è femminismo, ditemi voi cos’è.