“Come può qualcuno entrare in casa tua, portarsi via tuo marito, un padre di famiglia, un ingegnere… e sbatterlo in galera per poi dirti <<é sparito>>?”
Difficile uscire dalla sala senza un groppo in gola, e ancora più difficile è non ripensare a Io sono ancora qui nei giorni successivi. Walter Salles ci consegna una storia che non si limita a denunciare le crudeltà della dittatura brasiliana, ma che affonda le radici nelle emozioni e nelle ferite di una famiglia. Al centro di tutto c’è Eunice Paiva, moglie e madre che si riscopre combattente: Fernanda Torres la interpreta con una forza quasi selvaggia, mista a quella tenerezza materna che riempie il vuoto lasciato dall’assenza di Rubens, il marito “rapito” dallo Stato.
In uno dei momenti più toccanti, vediamo i figli di Eunice tentare di preservare qualche briciola di normalità. Le colazioni sbrigative prima di correre a scuola, i compiti lasciati a metà perché “la mamma ha bisogno”, e quelle sere di silenzio in cui bastano un paio di note di chitarra a riportare un sorriso sui loro volti. Sono scene brevi, eppure comunicano la tragedia di un’infanzia che l’ingiustizia ha reso frettolosamente adulta: ogni abbraccio mancato del padre diventa una traccia di dolore condiviso, un lutto che ognuno vive a modo proprio, pur restando uniti.
La grandezza del film sta nell’attenzione riservata ai dettagli del quotidiano: la tavola apparecchiata con un posto in meno, i sorrisi tesi dei ragazzi quando la mamma racconta bugie a fin di bene, il lampo di speranza che si spegne ogni volta che Eunice bussa a una porta e incontra il muro di silenzi. Non servono scene esplicite di tortura o violenza, perché l’orrore più grande si manifesta nel sacrificio di una donna costretta a essere madre, padre e avvocato di se stessa. È lei a difendere il nome di Rubens davanti alle istituzioni, protetta solo dalla propria dignità.
Eppure, per quanto si parli di soprusi e censure, il film non rinuncia a sottolineare il potere dei legami familiari. Le discussioni attorno al tavolo, i dialoghi mancati, le carezze furtive tra fratelli: ogni tassello ci ricorda quanto forte fosse quell’amore prima che il regime lo strappasse. Salles non cerca scorciatoie né finali consolatori: ci regala invece un atto di memoria e di protesta, dove il dolore non diventa mai spettacolo, ma resistenza. E quando, nel finale, appare la Eunice anziana interpretata da Fernanda Montenegro, ci investe la consapevolezza che certe assenze, benché non risolte, possono diventare la spinta per non arrendersi mai.