“Lei dice… che quel cervello è la sede del potere di una nuova unione, la quale è pronta a… occupare il suo posto sulla scena mondiale…”
Attenzione, attenzione! Se siete finiti qui in cerca di un’opinione su Voci di Potere, preparatevi a leggere più volte la parola “grottesco” perché… non c’è altro modo di descriverlo. Questo film porta l’assurdo a livelli surreali, trasformando il “Gruppo dei 7” (l’incontro tra i leader dei sette dei paesi più economicamente avanzati del pianeta) in una farsa politica degna di un incubo lucido. Esaspera gli stereotipi nazionali, gioca con il nonsense e mette in scena un teatrino dove l’incompetenza regna sovrana. Il risultato? Un’esperienza che può divertire o frustrare, ma di certo non lascia indifferenti: il G7 come non l’avete mai visto… o forse sì?
Guy Maddin, insieme ai co-registi Evan e Galen Johnson, prende un’idea che di per sé è già un meme vivente – i vertici mondiali che si riuniscono ogni tanto a caso per fare vacanza, per non concludere mai nulla e per fare foto di gruppo tutti in linea distanti di un metro l’uno dall’altra – e la trasforma in un’esperienza cinematografica che oscilla tra la satira più intelligente e il delirio visionario. Il film segue i leader dei paesi più potenti del mondo mentre cercano di redigere una dichiarazione congiunta su una crisi globale indefinita. Ma non appena il sipario della politica si alza, tutto degenera rapidamente in una serie di eventi surreali, con personaggi che sembrano più caricature di archetipi nazionali che riferimenti diretti ai veri politici. E qui il film gioca sporco (e vince facile): anziché limitarsi a prendere in giro i leader contemporanei, punta il dito sugli stereotipi dei loro paesi e sulle dinamiche di potere che esistono tra di essi. L’Italia viene rappresentata – per chi fosse nato ieri e non sapesse come ci dipingono all’estero – con la sua proverbiale ignoranza e provincialismo, la Francia tenta di sovrastare la Germania con il suo eterno complesso di superiorità, gli Stati Uniti appaiono pomposi e autoreferenziali, e così via. Insomma, più che una parodia politica, Voci di Potere è una dissezione grottesca (te l’avevo detto che avrei usato questa parola spesso) delle relazioni internazionali.
La trama si perde volutamente nei meandri dell’assurdo e non vale neanche la pena provare a spiegarla, mentre il cast è decisamente solido ed offre interpretazioni da manuale. Cate Blanchett brilla nei panni della Cancelliera tedesca, un personaggio più emotivo di quanto ci si aspetterebbe. Charles Dance, con il suo immancabile aplomb britannico, è un Presidente degli Stati Uniti che non si preoccupa nemmeno di mascherare il suo accento inglese, contribuendo al senso di straniamento del film. Alicia Vikander ha un’apparizione intensa ma fulminea nei panni di una rappresentante dell’Unione Europea con toni apocalittici, mentre Rolando Ravello si cala nei panni del primo ministro italiano con una comicità che oscilla tra il tragico e il ridicolo. Ma al di là dei singoli attori, ciò che rende il film memorabile è il suo equilibrio tra il realismo politico e il teatro dell’assurdo. È un circo grottesco (eccoci di nuovo), dove il dramma geopolitico diventa uno spettacolo di incompetenza e piccoli giochi di potere tra figure meschine, tutte troppo concentrate sui loro drammi personali per rendersi conto che il mondo attorno a loro sta crollando.
Comunque, date le premesse, c’è da dire che non è un film per tutti. È doveroso mettere le mani avanti, a sto punto, ed avvisare: alcuni critici (a cui probabilmente esploderebbe il cervello se vedessero a teatro un’opera di Eugène Ionesco) lo hanno definito “pretenzioso”, “confuso” ed “inconcludente”. In parte non si può dar loro torto: la sceneggiatura non offre risposte chiare e molte scene sembrano più interessate a creare suggestioni visive che a portare avanti una vera e propria storia. Ma d’altra parte, non è proprio questo il punto? Non è forse la rappresentazione perfetta di come la politica contemporanea sia diventata una performance, un’illusione di azione che in realtà è solo un esercizio di autocelebrazione? Non era chiaro sin dal principio che stiamo parlando di qualcosa di… grottesco?
Lungi da me fare paragoni azzardati – anche perché sto per citare alcuni dei film più incisivi nei rispettivi generi – ma se avete apprezzato Il Fascino Discreto della Borghesia di Luis Buñuel per la sua critica surreale all’ipocrisia delle élite e Brazil di Terry Gilliam per la sua distopia grottesca e soffocante, allora Voci di Potere potrebbe incuriosirvi con il suo miscuglio di cinismo, satira e assurdità politica. Ma c’è anche un po’ di Triangle of Sadness, con la sua feroce critica alle élite che si sgretolano di fronte al caos, un accenno di Scappa – Get Out, che gioca con il senso di minaccia e l’assurdità delle dinamiche di potere, e persino una vena di Idiocracy, con la sua visione distopica di un mondo dove l’incompetenza diventa la norma. Ora, sia chiaro, Voci di Potere non è all’altezza dei capisaldi di genere che ho appena citato: ne richiama alcuni tratti distintivi, certo, ma senza raggiungere né la loro grandezza né la loro coerenza narrativa. È un’esperienza volutamente esagerata, grottesca (ultima volta, promesso) e spesso caotica, capace di lampi di brillantezza ma anche di momenti in cui sembra perdersi nel suo stesso delirio. Originale? Sicuramente. Efficace? Non sempre. Probabilmente finirà presto nel dimenticatoio, perché manca di quella forza incisiva che rende un film davvero indelebile nella memoria collettiva. Eppure, merita di essere visto almeno (o solo) una volta, perché osa, perché si diverte a calcare la mano e perché nel suo eccesso c’è qualcosa di stranamente affascinante. Forse non è solo una parodia al limite del fantascientifico. Forse, zombie e cervello gigante a parte, in fondo in fondo… è più vicino alla realtà di quanto vorremmo ammettere.